Note storiche su di un Regal Rifugio……

il Vittorio Emanuele II al Gran Paradiso.

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Questo singolare rifugio alpino,senz’altro il più originale della cerchia alpina PiemonteValdostana, ma anche uno dei più frequentati e confortevoli di tutta la catena alpina Italiana, era stato iniziato negli anni trenta sotto la presidenza del Senatore G. Brezzi, personalità  torinese di spicco di quei tempi. Il Senatore Brezzi , infatti, oltre alla presidenza della primogenita sezione del CAI , rivestiva quella della reale mutua assicurazioni – una delle più antiche e stimate compagnie di assicurazioni italiane – ed infine quella della società  Cogne di Aosta, industria siderurgica di primo piano in campo nazionale.
E proprio da questo terzo incarico del Sen. Brezzi che nacque l’originale aspetto strutturale ed architettonico del nuovo rifugio Vittorio Emanuele. Infatti il Sen. Brezzi affidò ad un socio e consigliere della sezione torinese, l’ing. Dumontel – professionista ben noto e stimato nel campo edile – il progetto di realizzazione dello stabile nuovo a condizione che la struttura interna venisse realizzata interamente in ferro, ovviamente di produzione Cogne. Essendo l’ing. Dumontel anche socio del CAAI (club alpino accademico) fu cosa semplicissima per il progettista trasferire lo schema del classico  piccolo “bivacco accademico” in quello del nuovo Vittorio Emanuele, naturalmente con le dovute proporzioni fissate dal Consiglio Direttivo sezionale di quei tempi ( minimo 120 comodi posti più altri meno comodi se fosse stato possibile). Vennero trasferite a dorso di mulo due saldatrici elettriche con i relativi gruppi generatori, smontate ovviamente i pezzi di peso idoneo al trasporto col mulo, che vennero poi rimontate in loco, tutto il profilato in ferro ed ancora il restante materiale necessario per la bisogna, e si iniziarono i lavori.
Nell’estate 1933 il Principe del Piemonte Umberto di Savoia venne pure trasportato a dorso di mulo da Pont Valsavarenche al rifugio, e con solenne cerimonia alpina inaugurò uno scatolone vuoto. Infatti erano state realizzate solo le 2 facciate in muratura di pietrame e la struttura metallica interna, il tutto ricoperto da un tetto in sottile lamierino che in pochi anni  denotò la propria precarietà , ovvia conseguenza della cronica mancanza di penuria del nostro sodalizio ed anche delle banali abitudini di quei tempi!
Poi vennero la guerra in Abissinia, le ben note sanzioni contro l’Italia, e da ultimo il secondo terribile conflitto mondiale che bloccò definitivamente la prosecuzione ed ultimazione dei lavori, che nel frattempo (anno 1936-37) il nuovo Presidente della sezione, conte G. Passerin D’Entreves, aveva con un contratto ardito e originale, affidato ad una impresa di costruzioni torinese-milanese ( Bianco e Tanci ) in cambio degli utili che il rifugio finito avrebbe prodotto nei successivi 15 anni.
E veniamo al dopoguerra: alla direzione rifugi della sezione nel 1951 era subentrato all’ ing.  Giovanni Bertoglio- eminente tecnico nel campo del rifugi alpini – il sottoscritto, che cercò di completare al meglio il rappezzo dei danni subiti per eventi bellici dai 37 rifugi sezionali, già  intrapreso dall’ing. Bertoglio. Restavano esclusi il Gastaldi, il Nuovo Torino ed infine  proprio il Vittorio Emanuele. Per nostra somma fortuna gli Stati Uniti D’america avevano messo a punto e poi deciso un piano di aiuti concreti per la ricostruzione della povera Europa ridotta a pezzi dalla seconda guerra mondiale: il piano E.R.P. detto anche Piano Marshall dal nome dell’ideatore. Erano cifre imponenti che vennero praticamente regalate dal popolo americano all’Europa e che permisero in pochi anni di realizzare la ricostruzione Europea, affetta da languore per mancanza di ossigeno. Ricordo per inciso che la sigla ERP significa ” Europa ricostruzione piano”.

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Anche i rifugi alpini vennero ammessi alla divisione della torta e la sezione di Torino decise di concentrare i fondi di propria spettanza ( circa 20.000.000 di quei tempi ) al completamento del regale Vittorio Emanuele II, che con il Torino  – poi affidato alla cura dell’ing. Locchi dopo aver realizzato la società  con la sezione di Aosta per il finanziamento della spesa da parte della Regione Autonoma Valle d’Aosta – rappresentavano i 2 problemi più impellenti. In un terzo tempo venne poi affrontata la ricostruzione del Gastaldi  sotto la direzione dell’ ing. Alvigini, eletto qualche anno dopo presidente della sezione.
Fatto il primo passo si diede inizio ai lavori con un sopralluogo al rifugio da parte del vicepresidente Ernesto Lavini e del sottoscritto in data 2 giugno 1953. Sul posto ci attendeva il bravo Valentino Daynè, gestore da molti anni per tradizione familiare del rifugio vecchio; già  il padre Celestino e la famiglia  lo avevano gestito per oltre 30 anni con amore ed attaccamento più che per interesse e guadagno ( questa filosofia mi ricorda un caso analogo verificatosi in valle di Susa : Alessandro Sibille, detto Sandrin, guida emerita del CAI e cavaliere della montagna, premio di fedeltà  montanara della provincia di Torino per il rifugio Vaccarone, curato e custodito come una loro seconda casa da lui e dalla moglie ).
Per poter effettuare la visita in Valsavarenche in un sol giorno, riducendo al minimo le spese, Lavini aveva deciso, con il debito consenso del consiglio direttivo, di noleggiare una Fiat 500, topolino era denominata allora, il cui costo, compresa la benzina, era stato convenuto con il noleggiatore in lire 40.000. Si partì alle 3 di mattino da Torino, ed alle 7 o già di là eravamo a Pont, donde a piedi raggiungemmo il rifugio accolti dal buon Valentino e dalla solerte signora Palmira. Si esaminarono col Daynè qualità  lavori potevano essere fatti in tale anno, valutandone il reale costo onde fossero compatibili con la cifra di lire 4 milioni di cui la sezione disponeva, quale contributo ERP.
Nel pomeriggio a sopralluogo ultimato si riprese la via del fondovalle e poi a piccole tappe il rientro a Torino. L’ultima tappa fu fatta ad Ivrea, dove casualmente in un bar del centro avvenne l’incontro con un gruppetto di amici di montagna che rientravano da una gita  in Val di San Barthelemy. Al casello di Chivasso entrata in autostrada e via verso Torino, che ormai stavano scendendo le prime ombre della sera. E qui avvenne la tragedia. L’amico Ernesto, alla guida della topolino, abbagliato da una grossa auto che filava a tutta birra verso Milano, pensò² – chissà  perché – di scendere la scarpata che portava al ponte sull’Orco, cosa ovviamente sconsigliabile ad un veicolo a 4 ruote. Fortuna volle che le tenere piante cedue ai piedi della scarpata facessero da materasso ai poveri tapini, attutendo notevolmente le conseguenze del non programmato volo. Gli amici al seguito ci raccolsero premurosamente – senza cucchiaino per fortuna! – e ci trasportarono a spron battuto alla Astanteria Martini però  il trattamento del caso. Ma le conseguenze più dolorose furono quelle economiche, poichè l’avarissimo Consiglio direttivo sezionale, seguendo le rigide regole del Padre fondatore Quintino, non sganciò una lira in più di quelle a suo tempo autorizzate per la trasferta a Valsavarenche.La benemerita società  Lavini-Rosazza dovette pertanto sobbarcarsi la differenza, sacrificando una intera mensilità  dei rispettivi stipendi per chiudere la sfortunata partita. cose che capitavano 40 anni fà!
Comunque nonostante il disastroso avvio, i lavori procedettero, soprattutto per merito del gestore Valentino Daynè, regolarmente di anno in anno e lo stabile nuovo fu addirittura, sia pure parzialmente, inaugurato già  nella primavera del 1954 in occasione del 1° Rally sci alpinistico Lafuma – Le Trappeur svoltosi in territorio Italiano, di cui i promotori francesi avevano affidato l’organizzazione ai dirigenti dello Ski Club Torino, a condizione che venisse effettuato nel gruppo del Gran Paradiso, con base nel  regal Rifugio .Il piano terreno cucina, bar, le 2 sale di soggiorno e pranzo ed i servizi – ormai ultimato assicura confortevole ospitalità  al centinaio di persone, concorrenti – fra i quali anche chi scrive – e addetti alla manifestazione, che si concluse brillantemente dopo 3 stupende giornate in quel di Cogne, dopo la lunga traversata del Gran Sertz.
Negli anni successivi furono completati i 2 piani letto e la centralina idroelettrica, azionata dall’acqua del sottostante laghetto dopo un percorso di 250 m. verso valle.
Anche la parte conclusiva dell’operazione di completamento del nuovo rifugio si tinse purtroppo di nero. Infatti nel mese di Giugno del 1961, quando ormai il Consiglio Direttivo aveva fissato la data dell’inaugurazione ufficiale del nuovo rifugio, una annosa angina pectoris prematuramente all’affetto dei suoi cari e di tutti gli amici torinesi il benemerito Valentino Daynè, che fu veramente il cuore e il braccio motore dell’operazione. Sin dovette perciò soprassedere alla cerimonia e spostarla a fine stagione. Ma la festa inaugurale fu velata da un senso di dolore e di mestizia, anche se si trattava del coronamento di una realizzazione che era iniziata 30 anni prima e per di più ostacolata da avversità  di ogni genere.
Chi scrive è stato ancora per molti anni fedele vestale delle sorti del Vittorio Emanuele, come ispettore e propugnatore di ulteriori migliorie. Basti citare l’utilizzazione di pochi anni addietro del grande sottotetto, un tempo ricettacolo di materiali infiammabili e di sporcizia, che rappresentarono per me una spina nel cuore per lungo tempo. Finalmente dopo molti infruttuosi tentativi il Consiglio Direttivo recepì  la necessità  di sfruttamento di tale locale, realizzando in un sol colpo due pregevoli risultati: l’eliminazione del pericolo incendio, ed il recupero di uno spazio vitale per altri 40/50 posti letto con una spesa, oltretutto, veramente modesta, che a tutt’oggi è già  stata largamente recuperata.
Il rifugio Vittorio Emanuele  in pochi anni è diventato notissimo in tutto il mondo per la posizione stupenda in cui sorge, per il servizio che fornisce sia agli alpinisti, sia agli appassionati di scialpinismo, sia ai semplici turisti ed escursionisti attratti dalle bellezze del Parco Nazionale in cui è ubicato. Le salite circostanti sono di grande soddisfazione per tutti, senza presentare eccessive difficoltà , ed i 4061 della vetta del Gran Paradiso sono un formidabile richiamo anche internazionale.
Per contro il problema grave e di difficile soluzione, è quello di riuscire a contenere la marea di frequentatori che in primavera e in estate muovono all’assalto di queste splendide montagne. Fu gioco- forza stabilire il numero chiuso per ragioni di sicurezza, con prenotazione obbligatoria a danno ovviamente di molti altri aspiranti. Inoltre, mio malgrado, si dovette realizzare quella orripilante via di fuga della scala esterna, cosa aberrante e sconvolgente. Ho quasi finito, ma voglio ancora raccontarvi un fatterello vissuto dal sottoscritto e dal Presidente E. Andreis una volta che assieme salivamo da Pont al rifugio durante i lavori.
Percorrendo la mulattiera di caccia eravamo pervenuti quasi al termine delle innumerevoli giravolte della parte bassa, allorchè Andreis mi fa: Rosazza nasconditi dietro a questo masso, come già  stava facendo lui. Motivo: duecento metri dal masso, appena al di là  della gorgia che spacca il vallone scendendo ripida ed incassata a fianco della mulattiera, Andreis aveva visto un grosso branco di stambecchi intenti a brucare pacificamente la loro pappa preferita .la scena avveniva  su un ripiano erboso sottostante ad una zona di placconi levigati dal vecchio ghiacciaio alta non meno di 25-30 metri e culminante con un successivo piano erboso. Stemmo accovacciati a ridosso del masso per alcuni minuti, adocchiando di nascosto il branco per non disturbarlo. Ad  un certo punto il capo branco – un magnifico bestione di 70-80 kg. cominciò a salire lungo piccole fessurine della placconata che noi da lontano stentavamo a individuare. Dopo aver percorso tutta la placconata, il capo arrivò  sul soprastante ripiano e si piazzò come un dominatore sul bordo dello stesso, immobile come la sfinge, rivolto verso il sottostante branco che continuava tranquillamente a brucare erba. dopo qualche minuto di questo spettacolo, ne iniziò un’altro ancora più singolare. Infatti tutti i componenti del branco a turno iniziarono la scalata della zona placconata passando nello stesso punto in cui era salito per primo il gran capo. I novellini, ancora inesperti talora scivolavano ed allora si lasciavano scorrere pancia a terra sulle zampe fino al punto di partenza accodandosi a quelli in attesa del loro turno.
Una vera e propria scuola di arrampicata su roccia! la scena durò sino a quando anche il più piccolo dei marmocchi non ebbe superato l’ardua scalata, riuscendo a mettere piede sul soprastante terrazzo. Solo allora il capo riprese il suo aspetto mansueto di buon padre di famiglia, rimettendosi pure lui a brucare erba.
Il caro Andreis mi disse che siffatto spettacolo gli era  già  capitato di vedere molti anni prima in valle dell’Orco, allorchè con l’avv. Renato Chabod frequentava con assiduità  la zona del Gran Paradiso, essendo entrambi intenti alla compilazione della ben nota guida TCI-CAI di cui furono autori con Ettore Santi, famoso sciatore. Ho veramente finito: auguro ai lettori di avere la fortuna di assistere almeno una volta a simile spettacolo, veramente indimenticabile e straordinario pur nella sua naturalezza e semplicità .
PIERO ROSAZZA

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